Intervista a Marco Brizzi
In occasione della Primavera dell’Architettura 2019 e del Premio Marcello D’Olivo si sono svolte, presso la Chiesa di San Francesco a Udine, due serate di cinema o meglio due serate dedicate all’architettura in video curate da Marco Brizzi, direttore di The Architecture Player e tra i massimi esperti di tale argomento. Tommaso ha colto l’occasione per porgli alcune domande al riguardo. L’intervista che segue è apparsa sul numero 92 della rivista Vista Casa.
Tom: Marco per prima cosa parlaci di questo tuo interesse verso i video e l’architettura che ormai ha radici molto lontane e si è manifestata in molti modi, oggi attraverso The Architecture Player.
Marco Brizzi: Si tratta di una passione che mi accompagna fin dagli anni in cui ero studente nella Facoltà di Architettura di Firenze. Mi sono formato negli anni in cui le tecniche digitali stavano cominciando a suggerire al mondo della progettazione nuovi scorci teorici e pratici e tra questi le possibilità di modellare oggetti architettonici digitali e di animarli. Certo, all’inizio si trattava di modelli molto rozzi e le animazioni che i software all’epoca disponibili permettevano di realizzare ponevano molti limiti all’espressione progettuale, ma mi era chiaro che agli architetti era offerta finalmente la possibilità di ritrovare un punto di contatto e di confronto con qualcosa di affine all’arte cinematografica, che i maestri del modernismo, circa settanta anni prima, avevano ricercato. Di fatto il digitale stava offrendo all’architettura l’opportunità di definire nuove forme espressive, legate soprattutto alla possibilità di descrivere qualità spaziali e temporali, ma anche di estendere il discorso architettonico a nuovi interlocutori, attraverso canali e strumenti di comunicazione che stavano definendosi in quegli stessi anni. Per questo nel 1997 a Firenze diedi vita a un festival, Beyond Media, durato fino al 2009, che poneva come centro dell’attenzione il modo in cui gli architetti cominciavano a elaborare espressioni progettuali e narrazioni architettoniche proprio attraverso il video. Da questa esperienza ne sono scaturite altre, come il progetto The Architecture Player (www.architectureplayer.com) che offre uno scorcio sulle opere raccolte dal mio gruppo, Image, nell’arco di oltre venti anni di ricerca. E che propone delle appassionanti letture basate appunto sull’osservazione di come l’architettura si racconta in forma di video. In questo senso The Architecture Player è un po’ un archivio e un po’ una rivista che pone lo sguardo su un mezzo di comunicazione molto potente.
Tom: Da quando gli architetti hanno iniziato ad utilizzare il video quale forma di comunicazione del proprio lavoro? Quali secondo te le tappe fondamentali? Com’è lo stato dell’arte oggi?
Marco Brizzi: Gli architetti hanno presto riconosciuto nel cinema un ambito di fondamentale importanza per arricchire la capacità del loro sguardo e anche per definire nuove opportunità di espressione. Molti dei protagonisti dell’architettura moderna, come accennavo prima, si sono confrontati con la possibilità di contribuire alla definizione di scenari architettonici per il cinema, hanno tratto ispirazione e metodo dalla capacità del cinema documentaristico di osservare la metropoli, per esempio. Si può tornare molto indietro nel tempo per ritrovare esperienze di comunicazione basate sullo strumento audiovisivo. Ma è con la disponibilità di strumenti più accessibili, come la cinepresa con film a 8 millimetri e poi con i supporti magnetici che riemerge questo interesse nella comunicazione. Comunicazione che poi esplode appunto quando i sistemi digitali cominciano a offrire la possibilità di produrre film e animazioni con sempre maggiore agilità e, infine, quando si intuisce che tali prodotti possono godere, attraverso gli strumenti sviluppati in Internet, di una straordinaria capacità di diffusione.
Tom: Come stano messi gli architetti italiani rispetto al resto del mondo relativamente all’uso del video? Quali sono degli esempi che tu ritieni di valore nel nostro panorama nazionale?
Marco Brizzi: Gli architetti italiani hanno sempre mostrato una grande sensibilità per la sperimentazione di linguaggi attraverso i quali definire nuove idee di architettura e dare forma a racconti di progetto. Credo di poter dire che questa sensibilità si riflette anche nella ricerca che nasce nel rapporto con il film e con il video. Molti sono stati gli episodi che possono testimoniare la continuità di questo rapporto. Penso alle straordinarie esperienze di Pietro Bottoni del 1933 intorno alla casa popolare, o a quelle di Giancarlo De Carlo del 1954 che esploravano la possibilità di indagare in forma di film i temi dell’urbanistica. Col passare del tempo, però, e con la crescita di confidenza con il linguaggio audiovisivo e con le sue potenzialità, sono emerse ulteriori prospettive che tendevano non tanto a documentare e analizzare l’esistente quanto a raccontare il progetto e ad estenderne la comunicazione. Così per esempio nell’ambito dell’avanguardia radicale della fine degli anni Sessanta si sono fatte avanti nuove ipotesi, che hanno conferito al progetto nuove connotazioni. I film di Superstudio, ad esempio, ne sono testimonianza: elaborati all’inizio degli anni Settanta con una specifica funzione comunicativa, essi definiscono delle narrazioni critiche originali sul ruolo dell’architettura e sul suo oggetto. Da questo momento in avanti il video comincia ad assumere un ruolo nuovo per il progetto di architettura.
Tom: Il video tu spesso insisti che acquisisce valore quando i piani di lettura sono molteplici o meglio quando il racconto non è incentrato sull’architettura ma questa diviene sfondo piuttosto che, a dirla con le parole di Valerio Paolo Mosco, palcoscenico. Puoi approfondire questo concetto?
Marco Brizzi: Negli ultimi anni, in effetti, il racconto del progetto ha visto emergere delle forme nelle quali l’architettura non è sola e unica protagonista della scena. Questo può apparire inusuale. La fotografia di architettura, in effetti, ci ha a lungo abituati a celebrare le opere costruite come oggetti in qualche modo assoluti, indipendenti dalla loro vita sociale e quotidiana. E i modelli digitali hanno inizialmente insistito su questa medesima modalità, consolidando la pratica di osservazione dell’opera architettonica. Poi qualcosa è cambiato e le cause di questo cambiamento sono molteplici. Fino a qualche tempo fa, per esempio, il racconto del progetto coinvolgeva un numero limitato di soggetti, tipicamente il committente e solo occasionalmente il pubblico. Oggi il racconto architettonico tende ad aprire pratiche discorsive che passano attraverso numerosi incontri pubblici, pubblicazioni sui socia al media, su riviste specializzate o generaliste. Osservo questi fenomeni quotidianamente sia perché li propongo come oggetto di riflessione ai miei studenti sia perché me ne occupo regolarmente nel supportare, con la mia agenzia, la comunicazione di progetti di architettura. In questa prospettiva l’esigenza raccontare il progetto in maniera più avvincente e la volontà di restituire al racconto stesso un maggiore senso di realtà inducono architetti e gli autori di film a documentare e a descrivere una molteplicità di aspetti fino a oggi in larga parte trascurati nella comunicazione del progetto. E questo non può che giovare all’arricchimento del discorso che l’architettura ha la vocazione di intrattenere con le persone che vivono e che abitano gli spazi costruiti.
Tom: Grazie come sempre per la tua disponibilità e per il tuo impegno nella diffusione della cultura architettonica.
Grazie a te, Tommaso.